Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 02 ottobre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Sedicesima
Parte)
32. La supernova del 1604, l’anno in cui
Galileo scopre in modo misterioso la legge oraria del moto. Torniamo
ora al 1604. Il frate Ilario Altobelli, astronomo, osserva una “stella nova” il
9 ottobre di quell’anno e ne informa Galileo; poi, con una lettera inviata da Verona
il 30 dicembre, riferisce al matematico e fisico dello Studio di Padova che l’astro
“quasi un arancio mezzo maturo” sarebbe stato visto e osservato per la prima
volta il 27 settembre 1604. Dell’osservazione di Galilei non abbiamo documenti
diretti; sappiamo che tenne tre lezioni che non ci sono pervenute su quella che
appariva come una strana fonte di luce stellare, accostata alla sorgente variabile
di luce del 1572, ma abbiamo documenti significativi sulle conseguenze dell’avvenimento.
Intanto, dopo frate Altobelli, il 17 ottobre il fenomeno è osservato anche da Keplero,
il quale pubblica un saggio divenuto in breve famoso e così intitolato: De
Stella nova in pede Serpentarii. Su questo studio si basa l’attribuzione eponima
attuale di Supernova di Keplero.
Il fenomeno delle supernove è costituito da
gigantesche esplosioni termonucleari che si verificano in stelle di grande massa
o in nane bianche; si tratta di processi catastrofici della dinamica stellare
caratterizzati dall’emissione di una quantità di radiazione luminosa miliardi di
volte superiore a quella del sole. All’epoca non si poteva neanche lontanamente
immaginare una cosa simile e il problema principale sembrava essere quello di un
corpo celeste che, essendo oltre la luna, doveva appartenere alla sfera degli elementi
creati incorruttibili, stabili e immutabili per essenza.
La questione si era già presentata, come ho accennato
prima, con la supernova del 1572; in quell’occasione l’astronomo danese Tycho Brahe[1] aveva
trovato un compromesso in grado di spiegare il fenomeno senza contraddire la tesi
dell’immutabilità perfetta del cielo lontano, ossia quello inteso
in senso mistico: il nuovo astro luminosissimo sarebbe stato non lontano dal
cielo delle stelle fisse ma formato da materia celeste imperfetta e tale da
potersi dissolvere in breve tempo.
Galileo, per la supernova del 1604 effettuò una serie
di misure, in base alle quali dedusse che si trattava di un elemento stellare,
perché non si spostava rispetto alle stelle circostanti. Dunque, sosteneva trattarsi
di un astro mutevole, pur appartenendo al cielo immutabile. Questa posizione
fece scalpore e indusse l’immediata reazione degli intellettuali padovani, secondo
i quali solo il filosofo che indaga le essenze è autorizzato a parlare della reale
struttura del cosmo, mentre l’astronomo deve limitarsi a effettuare calcoli e
misure.
Galileo, che non aveva la virtù dell’umiltà di Copernico[2] e
sapeva che sostenere tesi supportate da autorevoli colleghi di altri paesi avrebbe
potuto giovare alla sua carriera universitaria, si espose affermando che la supernova
non poteva appartenere all’ordine dei fenomeni meteorologici e sublunari, ma secondo
i suoi calcoli doveva essere un corpo celeste appartenente alle cosiddette stelle
fisse. In realtà, dai fogli che ci sono pervenuti, non sembra che avesse effettuato
misure particolarmente accurate, ma solo sufficienti a confermare che la stella
nova non si spostasse[3].
Le tre lezioni che tenne a Padova sull’argomento furono
seguite da molti e le affermazioni in contrasto con il dogma tolemaico furono immediatamente
oggetto di discussione e dibattito. A parte l’opposizione preconcetta del
milanese Baldassarre Capra, che in seguito lo accusò di avergli rubato l’invenzione
del “compasso geometrico e militare”, vi fu la pubblicazione di argomentazioni
che confutavano le sue tesi in un opuscolo firmato “Antonio Lorenzini aristotelico
di Montepulciano”, probabile pseudonimo di un docente patavino.
La risposta di Galileo non si fece attendere molto e
fu realizzata con intento satirico e gusto teatrale grazie all’aiuto del monaco
benedettino Girolamo Spinelli, ammiratore dell’astrofisico pisano ed esperto
del dialetto patavino, che redasse con lo pseudonimo di Cecco di Ronchitti da
Bruzene, e verosimilmente sotto dettatura galileiana, il divertente testo di un
dialogo tra due contadini, Matteo e Natale, che nell’agreste idioma locale discutevano
la tesi che i matematici dovessero conoscere l’essenza metafisica delle
stelle per poterle misurare, mostrando come fosse sufficiente il comune buon
senso di uomini del tutto privi di cultura per confutare e ridicolizzare quella
tesi.
Il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in
perpuosito de la Stella Nuova raggiunge gradevoli effetti umoristici quando
alle ragioni a sostegno della necessità di conoscere l’essenza delle stelle, pedestremente
esposte da Natale che fa da spalla, Matteo risponde che se anche le stelle
fossero di polenta per la misurazione non cambierebbe nulla; e quando, immedesimandosi
nei problemi creati dalla nuova stella, esclama: “Cànchero, l’ha avuto torto questa
stella a rovinare così la filosofia di costoro”[4].
Le due tesi su cui lo scopritore dei satelliti di Giove
incontrò maggiori obiezioni e contestazioni nell’ambiente accademico si possono
così sintetizzare: i problemi astronomici si risolvono solo sulla base di misure
e non di considerazioni metafisiche; l’essenza metafisica delle stelle è il
portato di speculazione e, in quanto tale, non è di interesse matematico.
Oggi, alcune semplificazioni didattiche e divulgative
che si sono affermate prima nei paesi di lingua inglese e poi hanno avuto diffusione
globale, rappresentano una Chiesa paladina del pensiero di Aristotele che perseguita
Galileo Galilei impegnato in una personale battaglia contro il filosofo greco, come
si legge anche in Carl Zimmer[5]. La realtà
storica è complessa e differente nella sostanza e, probabilmente, questa è la peggiore
semplificazione possibile. Era Platone il filosofo greco integrato nella cultura
cristiana dal Medioevo al neoplatonismo dell’Accademia fiorentina; Aristotele, filosofo
della natura per eccellenza, non credeva nell’immortalità dell’anima e la sua concezione
ontologica è in radicale contrasto con la visione cristiana di un Dio Creatore.
Infine, l’interesse principale di Galileo non era certo quello di elaborare una
filosofia antiaristotelica[6].
A questo fraintendimento si è giunti per ignoranza
della storia della cultura occidentale ed estrema superficialità nell’intendere
qualche stringato resoconto del contesto in cui l’astrofisico pisano aveva presentato
le sue tesi.
In realtà, la visione aristotelica del cosmo, che
rappresenta una piccola e trascurabile parte dell’imponente edificio filosofico
costruito dal pensatore di Stagira, è impiegata dall’establishment universitario
seicentesco quale fondamento teoretico della visione cosmologica di Claudio Tolomeo,
un matematico egiziano alessandrino di cultura greca del II secolo d.C., considerato
tra i massimi astronomi e geografi dell’antichità. Il suo sistema tolemaico,
descritto nell’opera Sintassi matematica[7] con la
Terra al centro e il Sole e la Luna che vi girano intorno, per un millennio e mezzo
ha costituito una concezione che accomunava tutti, dagli astronomi alla gente comune,
al punto che, quando si diffonde la teoria eliocentrica esposta dall’astronomo
polacco Niccolò Copernico nel saggio De rivolutionibus orbium coelestium[8], sarà
coniata l’espressione “rivoluzione copernicana”, letteralmente riferita al movimento
dei pianeti intorno al sole, ma metaforicamente intesa come il più grande sovvertimento
immaginabile nel modo di concepire la realtà. È da questa espressione che deriva
per traslato il concetto di “rivoluzione” in politica, inteso come un completo
sovvertimento delle istituzioni di governo di un paese.
Da notare che Copernico era un canonico della Congregazione
riformata dei Canonici Agostiniani e, sebbene la sua opera principale sia stata
pubblicata tardi, già nel 1514 aveva comunicato la sua teoria della rivoluzione
della Terra intorno al Sole, secondo quanto era stato intuito da alcuni filosofi
antichi, attraverso il Commentariolus, un breve trattato contenente i
suoi sette postulati della teoria eliocentrica, che aveva distribuito personalmente
fra amici e colleghi[9]. Copernico
aveva studiato con Fracastoro e Gaurico a Padova[10], dove
era rimasta traccia dei suoi studi.
La questione fondamentale è che Galileo Galilei
aveva sposato a pieno la visione di Copernico, dalla quale aveva preso le mosse,
ma invece di minimizzare la portata del suo impatto teorico sulla visione metafisica
dominante, aveva evidenziato l’insostenibilità delle tesi tolemaiche alla luce
delle nuove conoscenze: lo scopo diretto, consapevole e immediato è quello di
sottrarre la dimensione fisica dell’universo alle nebbie metafisiche per farne
oggetto riconosciuto dell’indagine scientifica. Un secondo fine, facilmente deducibile
anche se non direttamente documentato perché psicologico, è il poter recitare
un ruolo da protagonista in questa transizione[11].
La maggioranza dei contemporanei considerava Copernico
solo un buon canonico e non sapeva nulla del rivoluzionario approdo dei suoi
studi; Galileo vuole evitare che si continui a trascurare e misconoscere il progresso
compiuto, nell’interesse della scienza e per la propria fama personale.
Nel 1604, oltre tutti gli eventi che ho menzionato, si
verifica un fatto assolutamente singolare negli studi di Galileo Galilei che,
se fosse divenuto di pubblico dominio, avrebbe indotto i suoi superstiziosi
clienti che andavano a chiedergli l’oroscopo a dedurre un patto col diavolo. Come
sia stato possibile quanto oggi possiamo apprendere in dettaglio ed esaminare
alla luce delle conoscenze attuali, non è facile dirlo, ma qui di seguito esporrò
in sintesi l’accaduto, così che il lettore possa trarne una personale opinione.
Il 16 ottobre Galileo invia una lettera all’amico Paolo
Sarpi in cui scrive che a lungo gli era mancato un principio che gli consentisse
di spiegare tanti singoli fatti osservati nello studio del movimento, ma che ora
lo ha trovato, ed è “talmente naturale ed evidente da poter essere
giudicato totalmente indubitabile e, di conseguenza, così vero da poter essere
impiegato come assioma”[12]. Cosa
ha trovato? Studiando l’impatto, che lui chiama “percossa”, di un grave
su un corpo deformabile, ha desunto in che modo cresce la velocità di un oggetto
mobile, e scrive così: “Il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo
di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto”.
L’enunciato non è affatto chiaro, e dunque Galileo
provvede a corredarlo di una figura che schematizza lo spazio percorso da un
oggetto che cade, mediante una linea verticale ripartita in cinque segmenti, e
fornisce una dimostrazione del suo principio “indubitabile”, che in sostanza
implica che, nella caduta libera, la velocità posseduta dal grave in un dato punto
sia direttamente proporzionale allo spazio percorso. Ma oggi sappiamo che questa
idea è sbagliata, perché la velocità nella caduta libera è proporzionale al tempo
trascorso dall’inizio del moto, e non alla distanza percorsa.
Cosa c’è di strano in un errore di Galileo? Ecco
cosa: Enrico Bellone affrontando il problema, dopo due pagine di dimostrazioni
e analisi critica del ragionamento galileiano, scrive: “E qui il nostro scienziato
si esibisce in una vera e propria acrobazia logica”[13], perché
parte da una premessa sbagliata, sviluppa ragionamenti erronei e, infine, enuncia
una nuova legge che è la chiave di volta della nuova meccanica e ha un ruolo di
eccezionale rilievo per la nascita della fisica moderna: quando un oggetto nel
campo gravitazionale cade liberamente lungo la sua verticale, gli spazi percorsi
sono proporzionali ai quadrati dei tempi necessari per percorrerli.
Se uno studente sbaglia tutto il compito e poi lo conclude
con il risultato giusto, si pensa che il risultato l’abbia copiato. Ma, da quanto
ne sappiamo, nessun altro era giunto alla formulazione di questo principio. È
quasi come se la legge gli fosse stata suggerita e lui avesse provato a risalire
ai ragionamenti e ai procedimenti che l’hanno generata, senza peraltro riuscirvi.
Galileo ha così scoperto la legge oraria del moto,
una delle leggi fondamentali della meccanica moderna, partendo da un presupposto
erroneo e sviluppando un ragionamento che appare come un goffo tentativo di far
quadrare la legge con la premessa da cui sarebbe stata dedotta. Come spiegare
questo mistero senza fare ricorso a ipotesi irrazionali? Voi cosa ne pensate?
Per quanto mi riguarda, ritengo che Galileo abbia impiegato
un procedimento cognitivo non convenzionale, ossia non sviluppato secondo logica
aristotelica, ma seguendo quel modo di usare l’intelligenza che lo studioso melitense
di processi cognitivi Edward De Bono chiamava pensiero laterale, per distinguerlo
dalla logica convenzionale descritta come procedimento verticale[14]. In
poche parole, la conoscenza implicita che gli era derivata da tutti gli esperimenti
compiuti lo ha indotto intuitivamente a provare se la proporzione quadratica potesse
essere all’origine di tutti i dati di misura che aveva ottenuto e, avuta la conferma,
da questo nucleo ha poi sviluppato, secondo “logica verticale”, i suoi ragionamenti.
Questo modo di procedere non deve essere considerato
come una generica eccezione alla regola di ragionare per induzione e deduzione
sulla base di premesse certe, ma come una possibilità di provare o “sperimentare
con la mente”, riservata alle circostanze in cui si cerca di accedere a un
nuovo dominio di conoscenza senza ancora disporre degli elementi necessari all’esercizio
logico ordinario.
L’uso di un procedimento cognitivo non convenzionale
apre un piccolo spiraglio al tentativo di accedere al campo della mente di
Galileo, o almeno a una parte del suo stile psichico e, per quanto mi riguarda,
mi ha indotto a rileggere sotto una luce diversa i suoi scritti giovanili, non
più solo come espressione di intolleranza verso i vuoti rituali accademici, ma
quale testimonianza di un modo nuovo di concepire l’esperienza conoscitiva.
33. Il complotto ai danni di Galileo per
arrestarne l’ascesa che minacciava centri di potere accademico e politico. Nel 1610,
quando lascia Padova per tornare a Firenze come “Matematico e Filosofo” del Granduca
di Toscana, Galileo ha compiuto gli studi sulla fisica del moto scoprendo la forma
parabolica della traiettoria dei proiettili, ha persuaso il Doge sulle potenzialità
militari del suo “cannone occhiale” con una dimostrazione effettuata il 21 agosto
1609 dal campanile di San Marco, ottenendo un generoso compenso dal Senato veneziano,
e soprattutto ha pubblicato il Sidereus Nuncius (13 marzo 1610) in cui
descrive e disegna l’accidentata superficie lunare, identifica la Via Lattea come
ammasso di stelle e altri corpi celesti, e descrive la scoperta di quattro satelliti
di Giove: Io, Europa, Ganimede e Callisto[15].
A Firenze ritrovava alcuni vecchi amici e molti fra
avversari, oppositori e detrattori, anche perché Galileo considerava sfide,
contese, dibattiti, controversie e dispute come il sale della vita, ma sembra che
non brillasse per savoir faire e che, dileggiando e denigrando gli
avversari, si rendesse antipatico o addirittura odioso.
Da giovane la sua sfrontatezza con le autorità e la
lucida intelligenza con la quale le metteva alla berlina gli avevano procurato
molto seguito; d’altra parte, il suo stile anticonformista e il suo dichiarato
preferire la sostanza del valore delle persone alla rispettabilità conferita dai
ruoli sociali erano graditi a molti suoi coetanei, come alla maggioranza dei
giovani di ogni epoca, rimanendo sgraditi ai “custodi dell’ordine ordinario”,
per dirla con Musil, ossia a coloro che proteggevano il codice di simboli sociali
entro cui si rappresentava il proprio potere.
Un efficace esempio dello spirito del giovane Galileo
lo troviamo in Contro il portar la toga, un poemetto di 300 versi in terzine
di endecasillabi scritto a ventisei anni nello stile del Berni, prendendo
spunto da una nuova disposizione, verosimilmente promossa dagli stessi professori
universitari, che prevedeva l’obbligo di indossare la toga in tutte le occasioni
sociali e non solo nell’esercizio delle proprie funzioni, così da costituire un
segno di distinzione, indicando quasi l’appartenenza a una casta[16].
Leggiamone qualche verso. Per trovare il bene suggerisce
di cercare il male e fare il contrario: non serve seguire cavillose speculazioni
teoretiche, ma basta apprendere dall’esperienza. E poi: “a chi vuol una cosa
ritrovare,/ bisogna adoperar la fantasia,/ e giocar d’invenzione, e ‘ndovinare”[17]. Poi
paragona i professori ai fiaschi: quelli “che non hanno niente indosso”, ossia
non sono fiaschi impagliati, sono pieni di eccellente vino, mentre quelli che
hanno veste delicata, ossia nascondono il loro interno “…o son pieni di vento/
e di belletti o d’acque profumate,/ o son fiascacci da
pisciarvi drento”[18].
Vent’anni dopo Contro il portar la toga le cose
sono profondamente mutate: non è più il tempo delle caustiche ironie, delle metafore
canzonatorie, delle parodie goliardiche, delle beffe satiriche, della critica
sarcastica, di versi derisori concepiti per suscitare il riso verso i detentori
del potere accademico e il consenso per la propria consorteria; Galileo non è
più un giovane contestatore, ma un accademico quarantaseienne protagonista
della vita culturale e in irresistibile ascesa nel potere di contrattualità politica,
perché sotto la diretta protezione del Granduca di Toscana. L’astronomo, che grazie
al Sidereus Nuncius è assurto a fama internazionale, è divenuto una
figura ingombrante per chi l’aveva fatta da padrone negli atenei toscani mentre
lui era a Padova.
Intanto, il 29 marzo del 1611 Galileo si reca a Roma
per presentare le sue scoperte alle maggiori autorità scientifiche dell’epoca,
ossia i Gesuiti docenti presso il Collegio Romano. Non solo viene accolto con
tutti gli onori dallo stesso Papa Paolo V[19], ma
nasce anche una breve collaborazione con i Gesuiti, come apprendiamo da una lettera
scritta tre giorni dopo al segretario ducale Belisario Vinta: “[I Gesuiti] avendo
finalmente conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne hanno fatto da
due mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo riscontrate con le mie, e si rispondano giustissime”[20].
All’inizio dell’anno, oltre a occuparsi delle macchie
solari che aveva già osservato a Padova e sulle quali pubblicherà dopo,
soprattutto in relazione alla dimostrazione della rotazione del sole su sé stesso,
scrive all’Arcivescovo di Pisa Giuliano de’ Medici: “Venere necessarissimamente
si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben
creduta da tutti i Pitagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente[21] provata,
come ora in Venere e Mercurio”[22].
Il 19 di aprile dello stesso anno il Cardinale Roberto
Bellarmino chiede ai matematici vaticani una relazione sulle nuove scoperte; il
17 maggio la Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione chiede
formalmente all’Inquisizione di Padova se Galileo Galilei fosse stato indagato
in precedenza: non conosciamo la risposta, ma possiamo immaginarla[23].
Avevo già anticipato, a proposito del deferimento al
tribunale patavino, che i veri problemi per Galileo Galilei hanno inizio a Firenze
per una trama ordita da Ludovico delle Colombe con i suoi sodali della Lega
dei colombi. Un sintetico ed efficace ritratto di questo acerrimo nemico del
fisico pisano si ricava dalle parole di Enrico Bellone: “La figura di Ludovico
delle Colombe è singolare ma non troppo. Un tuttologo, come forse lo si definirebbe
oggi, che a tutto era disposto pur di circondarsi della fama di persona potente
e colta, e che in modo impressionante fa venire alla mente certi nostri contemporanei
professori universitari sempre inclini non alla ricerca, ma all’intrigo e alla
chiacchiera”[24].
I motivi che inducono il delle Colombe a tramare contro
Galileo sono tra i più meschini e, purtroppo, all’origine di molti giochi di
potere che determinano ancora oggi nelle università italiane soprusi, esclusioni
e azioni di mobbing nei confronti di colleghi e giovani candidati indesiderati.
L’arrivo di Galileo andava a turbare il dominio incontrastato di una consorteria
che gestiva ogni cosa secondo interessi privatistici dissimulati da un’apparenza
di correttezza formale e, soprattutto, facendo leva sul prestigio culturale di cui
la Lega dei colombi godeva presso il clero e le istituzioni.
Proprio questa reputazione rischiava di essere compromessa
per effetto della nuova visione della fisica e del cosmo portata da Galileo
Galilei che, dopo essersi guadagnato a colpi di scoperte sensazionali la stima
e l’ammirazione dei più eminenti colleghi europei, del Doge e del Granduca di
Toscana, aveva in mente di rinnovare l’insegnamento delle materie scientifiche,
non limitandosi a introdurre le nuove nozioni astronomiche, ma illustrandone la
coerenza col sistema copernicano, che nelle sue intenzioni doveva
sostituirsi all’obsoleto sistema tolemaico, gettando alle ortiche tutte
le ubbie pseudo-aristoteliche di cui si nutrivano i custodi dello status quo.
Ludovico delle Colombe decide allora di porre in essere
un’attività capillare di “informazioni riservate” sulle intenzioni di Galileo di
destabilizzare l’ordine delle coscienze stabilito sullo stretto legame tra razionalità
e tradizione, allo scopo di screditarlo presso le autorità accademiche e
religiose, che sarebbero state attente a riconoscere e rintracciare in ogni suo
scritto e in ogni suo pronunciamento i possibili segni dell’eversione.
Dopo aver preparato il terreno, il capo della Lega
dei colombi decide di servirsi strumentalmente degli esponenti del potere
ecclesiastico più facilmente manipolabili e sobillabili per ottenere un intervento
di censura verso il rivale accademico, da impiegare per porre in atto una
campagna di discredito e delegittimazione. L’intenzione era quella di far
cambiare l’immagine popolare di Galileo, e cercare di rovinargli la reputazione
per ottenere con maggiore facilità l’allontanamento dall’ateneo. A questo scopo,
la Lega ritiene sia necessario un intervento di comunicazione rivolto al
pubblico, che si rappresenti come fatto oggettivo e relativo alle responsabilità
di Galileo verso tutta la comunità dei credenti.
In proposito Bellone scrive: “A quanto pare fu proprio
il delle Colombe colui che, in un incontro svoltosi sul finire del 1611 nell’abitazione
dell’arcivescovo fiorentino, propose di fermare Galileo non con ragioni scientifiche,
ma con argomenti di natura religiosa: occorreva, insomma, che un prelato intervenisse
pubblicamente, e cioè dal pulpito, per porre un freno all’irruenza con cui Galileo
continuamente attaccava le basi stesse del sapere”[25].
Da quanto risulta, il complotto non ottiene effetti
immediati. Non sappiamo perché, possiamo solo ipotizzare che l’arcivescovo non
abbia subito abboccato all’amo, magari perché ha dedotto il secondo fine e compreso
il tentativo di strumentalizzazione, o semplicemente perché ha considerato che
Galileo non sollevava problemi in termini di verità di fede, e seguiva una teoria
scientifica di un canonico agostiniano, quale era Copernico, e non di un pericoloso
apostata o eresiarca.
Ma la trama dei “colombi” continuava ad essere tessuta,
individuando degli ignari alleati in alcuni frati sensibili al pericolo che la fisica
e l’astronomia galileiane attaccassero alle fondamenta l’edificio della cultura
cristiana, rischiando di causare perdita di fede negli insegnamenti della Chiesa.
Galileo rimane ignaro, soprattutto circa la diffusione fuori della Toscana di opinioni
e insinuazioni volte a suscitare avversione nei suoi confronti, così che un suo
fedele amico e ammiratore, quale Paolo Gualdo, Arciprete della cattedrale di Sant’Antonio
da Padova, lo avverte per lettera di quanto sta accadendo e gli suggerisce di
essere prudente. È importante questo intervento epistolare e merita un piccolo
approfondimento.
Paolo Gualdo, un sacerdote letterato ed erudito aveva
goduto della stima dello sfortunato Papa Urbano VII[26], dal
quale era stato nominato “segretario dei memoriali”, era grande amico del Caravaggio,
del Palladio, di Torquato Tasso e di Gian Vincenzo Pinelli, un umanista napoletano
cultore di matematica e astronomia trasferitosi presso lo studio di Padova. Gualdo
aveva presentato Galileo a Pinelli che, impressionato dalle doti del matematico
pisano, era in breve divenuto suo mentore in Padova. Dunque, oltre alla reciproca
stima, c’era da parte di Galileo gratitudine nei confronti dell’Arciprete. Gualdo,
che era anche vicario dell’Arcivescovo, aveva costantemente il polso politico del
momento, tanto dell’ateneo patavino quanto della Chiesa; per questo Galileo teneva
nella massima considerazione la sua opinione e, da quando era tornato a Firenze,
gli scriveva per avere notizie dello Studio di Padova[27].
L’Arciprete di Sant’Antonio nel 1612 gli scrive che
le sue idee, se proposte quali tesi teoriche, sarebbero sempre state rifiutate
e combattute da filosofi e teologi che concepiscono la teoretica, in un
certo senso, come scienza della verità. Per questo gli consiglia di
proporle quali ipotesi in una riflessione partecipata, così che possano essere
oggetto di discussione; dopotutto, osservava Gualdo, le controversie godono di
libertà in quanto “molte cose si possono dire per modo di disputa”, mentre porre
le proprie tesi non come deduzioni da calcoli giusti, ma quali apodittiche
verità può essere pericoloso “quando s’ha l’opinione universale di tutti contra”.
Galileo fa tesoro del consiglio, e dalle parole di
Gualdo desume anche un’importante informazione: non ha più solo un problema con
una consorteria fiorentina, ma si è creato un movimento di opinione contro le
sue tesi, che sicuramente ha raggiunto il Veneto e la Curia di Roma. Allora Galileo
si rivolge al Cardinale Conti per avere da un uomo di profonda fede un giudizio
scevro da condizionamenti sulla sua opera e sul suo operato.
Siamo nell’estate del 1612 e la risposta di Conti conforta
Galileo: non può esserci contrasto tra l’astronomia galileiana e le Sacre Scritture,
perché i testi sacri non sono trattati concepiti per istruire gli uomini di
scienza sui fatti della natura, ma scritti morali ispirati, rivolti al “volgo”
perché seguendo la parola di Dio possa salvarsi[28].
Nell’autunno del 1612 si diffuse ad arte, così che
giunse all’orecchio dello scopritore dei satelliti di Giove, che un frate fiorentino,
parlando di un tale Ipernico, affermava che le sue teorie
sul moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole non fossero compatibili con
la Bibbia. Il nome sbagliato di Copernico era stato suggerito al religioso perché
non si scoprisse che vi era dietro un’iniziativa nata in ambienti accademici,
dove l’identità dell’autore del De rivolutionibus orbium coelestium era ben
nota.
Nel 1612 Galileo scrive e pubblica il Discorso intorno
alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, in cui dimostra
che il galleggiamento obbedisce al principio di Archimede e non dipende dalla
forma come voleva Aristotele, provocando la risposta polemica di Ludovico delle
Colombe, che pubblica il Discorso apologetico d’intorno al Discorso di
Galileo Galilei, del letterato e aristotelico fiorentino Ludovico delle Colombe.
La reazione di Galileo è eclatante e ottiene un
risultato che si può considerare una vera e propria vittoria sull’avversario.
Nella magnificenza di Palazzo Pitti, alla presenza del Granduca, della Granduchessa,
del Cardinale Maffeo Barberini[29] ed
altre autorità, il 2 di ottobre del 1612 realizza un esperimento acquatico di pubblica
dimostrazione che i corpi galleggianti in acqua, indipendentemente dalla
loro forma ricevono una spinta dal basso verso l’alto pari al peso dell’acqua
spostata: gli astanti, tutti molto impressionati ed ammirati, diventano spontanei
testimoni della definitiva risoluzione della disputa.
Il 2 di novembre, nel giorno della commemorazione dei
defunti, si verifica il primo effetto eclatante del complotto ordito da Ludovico
delle Colombe e la sua consorteria: Niccolò Lorini, priore di San Domenico a
Fiesole e professore di storia ecclesiastica allo Studio di Firenze, in una disputa
tenuta nel convento fiorentino di San Matteo, per primo tacciò di eresia la dottrina
copernicana del moto della Terra, attaccando e condannando le idee galileiane.
Con astuta falsità, Niccolò Lorini inviò subito una
lettera di scuse a Galileo, sia per prevenire sue reazioni e il rischio di uno
scontro diretto, che voleva evitare in quel momento in cui l’astrofisico era
ancora abbastanza forte e protetto, sia per rassicurarlo e continuare a tramare
in segreto contro di lui, fino a portare dalla propria parte la maggioranza delle
personalità più influenti.
A questo punto, Galileo è pienamente consapevole
delle dimensioni del movimento di opinione montato ad arte contro di lui, e sceglie
di non andare allo scontro frontale come era solito fare nelle controversie scientifiche,
tenendo una condotta estremamente prudente.
Enrico Bellone scrive: “In occasione di un pranzo di
corte tenutosi a Pisa, l’insinuazione escogitata dai «colombi» sull’inconciliabilità
tra le idee di Galileo e la fede religiosa fu portata sino alle orecchie della devotissima
granduchessa Cristina di Lorena”[30]. Cosa
era accaduto? Approssimandosi il periodo natalizio del 1613, Benedetto Castelli,
amico ed ex-allievo di Galileo, era stato invitato da Cosimo II de’ Medici e Cristina
di Lorena a Pisa per un convivio, durante il quale si tenne un dibattito scientifico
al quale parteciparono dei sostenitori della tesi di Ludovico delle Colombe, secondo
il quale il moto della Terra era incompatibile con la Bibbia. Benedetto Castelli
si assunse l’onere di difendere la posizione galileiana e poi, appena rientrato
dal pranzo, avvertì Galileo, così che, insieme, potessero decidere una “linea
di difesa” contro l’onda crescente del dissenso pregiudiziale.
Secondo quanto concordato, seguendo lo stile del protocollo
diplomatico, lo scopritore dei crateri lunari scrisse una lettera[31] al
suo allievo, per dichiarare il suo reale pensiero sul rapporto tra scienza e fede,
e per affermare una totale innocenza circa l’apparente contraddizione del
risultato dei suoi studi con interpretazioni letterali delle Sacre Scritture, ribadendo
l’idea del Cardinale Conti, di Padre Paolo Gualdo e dei gesuiti romani, che la
teologia è la massima depositaria della veritas
de fide, mentre la scienza cerca la veritas
de rerum natura, per cui non vi è conflitto tra teologia e astronomia,
ma solo differenza di oggetto tra scienza e metafisica.
La lettera di Galileo a Benedetto Castelli, fatta circolare
in copie dallo stesso destinatario per renderne noto il contenuto, doveva servire
come prova autentica – perché scritta nella spontanea sincerità di una
comunicazione privata – della rettitudine dell’animo e delle intenzioni dello scienziato.
Ma, proprio in quei giorni, la Lega dei colombi
decide di giocare la carta dell’estremismo religioso intransigente, che in Firenze
aveva sempre riscosso successo presso una parte del popolo: il 20 di dicembre del
1613 dal pulpito di Santa Maria Novella il frate domenicano Tommaso Caccini pronuncia
una violentissima invettiva dai contenuti senza precedenti nella storia del cristianesimo.
Infatti, Caccini si scagliò con una veemenza inusitata contro la matematica che,
al culmine di un adirato crescendo, definì “arte diabolica”, e condannò senza appello
tutti i matematici in quanto “eretici”.
Alla predica, come è facile immaginare, avevano assistito
dei “testimoni” con il compito di riferire i contenuti in Vaticano. E da Roma
la reazione è immediata: Padre Maraffi scrive a Galileo,
prendendo le distanze dallo “scandalo” delle parole di Caccini e per biasimare
coloro che nelle gerarchie vaticane si sono mostrati sensibili agli argomenti
dell’invettiva del frate domenicano. Infatti, nei secoli il cristianesimo aveva
sempre promosso la cultura della conoscenza, sia per coltivare virtù dello spirito
sia per ottenere sapienza, senza contare che, fin dal Medioevo, la massima parte
dei matematici e degli astronomi era costituita da religiosi.
La copiosa documentazione di cui oggi si dispone, ci
consente di affermare con certezza che furono molte le voci che si levarono sdegnate
dal Vaticano contro l’espressione di fanatismo di Tommaso Caccini, anche se fra
queste la più diretta rimane la citata comunicazione epistolare: “E, nella lettera,
Galileo trova una ulteriore conferma del complotto che lo aveva indicato come bersaglio.
Padre Maraffi infatti osservava che, a suo avviso, il
frate fiorentino aveva esposto «quello che gli detta la rabbia di altri e la
pazzia et ignorantia propria»”[32].
Se pure condannata da molti, l’invettiva era però
servita a spostare l’asse del giudizio vaticano da una posizione intermedia tra
tolemaici e copernicani ad una difesa della tradizione, quale prudente prevenzione
di una pericolosa e imprevedibile deriva verso una riformulazione matematica
del senso del creato.
Il certosino lavoro sporco della Lega dei colombi
comincia a ottenere risultati tangibili, e il mutamento del clima culturale è
percepito anche dal principe Federico Cesi che, in qualità di presidente dell’Accademia
dei Lincei oltre che di amico personale, raccomanda cautela a Galileo, perché il
Cardinale Roberto Bellarmino, che non molti anni prima aveva avuto un ruolo di giudice
nel tribunale dell’Inquisizione che condannò al rogo Giordano Bruno, si stava
attestando su posizioni anti-copernicane.
Nel 1613 Galileo impone a Virginia e Livia, le figlie
orfane di Marina Gamba, di andare a vivere nella regola del Convento di San
Matteo, anche perché le due fanciulle in sua tutela erano di fatto affidate alla
madre Giulia Ammannati, che non poteva più provvedervi. Di suor Maria Celeste e
suor Arcangela ho già detto in precedenza.
Non abbiamo documenti rilevanti per gli eventi del
1614, ma nel 1615 sembra compiersi il tempo atteso da Niccolò Lorini, il professore
di storia ecclesiastica dello Studio di Firenze con un ruolo chiave nel complotto,
che aveva impiegato come ballon d’essai il tacciare di eresia la tesi
copernicana e galileiana del movimento della Terra, scusandosi subito dopo con
Galileo per lettera: ora ritiene di poter sferrare il suo attacco. Come procede?
Si procura una copia di quella lettera scritta per scagionarsi da Galileo a
Benedetto Castelli[33], ne
altera alcuni punti, sottolinea i passi che possono essere strumentalmente usati
per incriminarlo e il 7 febbraio del 1615 la invia al Segretario della Sacra
Congregazione della Romana et Universale Inquisizione[34], corredandola
con una formale denuncia di eresia[35].
I membri dell’Inquisizione però si insospettiscono:
la manipolazione ad arte crea una maggiore evidenza di colpa, ma è poco plausibile;
dunque, danno ordine di rintracciare la lettera originale e si riservano di giudicare
il testo autentico. Da notare, anche in questo caso, che la Sacra Congregazione
si occupa solo di questioni rilevanti per la dottrina della fede e non agisce
come un generico tribunale penale, quindi non persegue chi ha falsificato il
documento. Ma tiene conto che ciò è avvenuto.
Il 20 marzo anche Tommaso Caccini, l’estremista del
complotto che aveva definito “arte diabolica” la matematica, giunge a Roma e si
reca presso la Congregazione a denunciare Galileo.
In quegli stessi giorni a Napoli il Carmelitano Paolo
Antonio Foscarini pubblica uno scritto che attrae l’attenzione delle gerarchie
ecclesiastiche e del Cardinale Bellarmino perché dichiara di accordare i passi
biblici con la teoria copernicana interpretandoli “in modo tale che non gli contradicano
affatto”[36]:
Lettera
sopra l’opinione de’ Pittagorici, e del Copernico, della
mobilità della Terra e stabilità del Sole, dedicata a Galileo,
a Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei.
Il Cardinale Roberto Bellarmino decide di
scrivere proprio a Paolo Antonio Foscarini per comunicare quanto la Congregazione
sta decidendo in materia di teorie cosmologiche e circa il caso particolare di
Galileo Galilei. Il tono non è quello minaccioso di un accusatore intransigente,
ma quello pacato e pragmatico di un politico accorto che, oltre a tutelare il prestigio
della religione, si preoccupa di non compromettere i difficili equilibri tra scuole
teologiche e filosofiche connesse con poteri temporali.
A proposito di Galileo, che lui indica come
il “mathematico”, dice che è sufficiente che proponga
le sue ipotesi come costruzioni di fantasia e non quali verità, astenendosi dal
dichiarare come “realmente” si muovono il Sole e la Terra nel sistema copernicano.
A proposito del modello del canonico agostiniano precisa che la sua difesa ad oltranza
come verità assoluta debba essere evitata, perché “cosa pericolosa non solo d’irritare
tutti i filosofi e theologi scolastici, ma anco di
nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.
Foscarini informa di tutto Galileo, che
scrive a Monsignor Piero Dini la frase drammatica passata alla storia: “Mi vien
serrata la bocca”. Scrive poi anche a Cristina di Lorena una lunga e appassionata
apologia delle sue idee e della loro compatibilità con tutte le verità della fede
cristiana, sperando nell’intervento di questi autorevoli destinatari presso i
membri della Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione[37].
Ma ciò non accade e, nell’arco di tempo che va dal mese di febbraio a quello di
marzo, si conclude sia l’inchiesta sia lo studio dei teologi, con la redazione
dell’atto di censura sulle teorie che asserivano l’esistenza di un moto
di rivoluzione della Terra intorno al Sole.
La delibera attiva conseguentemente i membri
della Congregazione addetti all’Indice che dispongono l’immediato ritiro dell’opera
principale di Copernico e di quella di Foscarini da tutte le biblioteche, in
attesa di essere rivedute e corrette.
Credo sia interessante rilevare un
aspetto particolare della posizione dei membri dell’Inquisizione: la censura dell’eliocentrismo
si accompagna ad una scelta di campo, fortemente sottolineata e raccomandata,
per le idee di Tycho Brahe, quello straordinario astronomo nato in Svezia, allora
appartenente al Regno di Danimarca, e che ho ricordato in precedenza per aver
ideato una soluzione di compromesso a proposito della supernova del 1572,
dichiarandola intermedia tra il cielo immutabile delle stelle fisse e il cielo
atmosferico mutevole, costituita da materia imperfetta e perciò soggetta a cambiamenti.
Con le sue osservazioni sulle comete, del
1577 e del 1585, Tycho Brahe confuta la teoria di Aristotele sull’immutabilità
delle sfere celesti: per i suoi calcoli, le comete non potevano appartenere alla
sfera sublunare e dovevano necessariamente muoversi nelle regioni eteree,
dimostrando che gli astri non sono infissi in sfere solide come riteneva il filosofo
di Stagira[38]. Tycho
Brahe tuttavia, e nonostante il tentativo del suo allievo Keplero di persuaderlo
del contrario, non abbandona il sistema geocentrico, anche se lo reinterpreta. Infatti,
nel suo modello tutti i pianeti girano intorno al Sole, che a sua volta gira
intorno alla Terra, immobile al centro dell’universo.
L’indicazione da parte dei membri dell’Inquisizione
di seguire Tycho Brahe rivela un aspetto significativo del loro atteggiamento mentale:
la disposizione di fondo di costoro non è spirituale ma politica, in quanto non
si preoccupano principalmente di verificare la compatibilità delle nuove teorie
con la Parola di Dio, ma di scegliere un campo di mediazione ideologica che
consenta di non turbare gli equilibri fra quelle che Gesù Cristo chiamava “dottrine
che sono precetti di uomini”[39].
Il Papa, intanto, aveva ordinato al Cardinale
Roberto Bellarmino di convocare Galileo per ingiungergli di abbandonare la concezione
eliocentrica e, se questi si fosse rifiutato di obbedire, il santo padre dice a
Bellarmino che avrebbe dovuto davanti a un notaio e a dei testimoni “fargli
precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla
e non trattarla”[40].
Bellarmino nella sua indagine ha scoperto falsità, calunnie
e accuse fatte circolare ad arte su Galileo. In particolare, temendo che il
paladino del sistema copernicano per la sua irriducibile opposizione al sistema
tolemaico potesse apparire un eroe agli occhi di molti, la Lega dei colombi
ha diffuso il racconto falso di una sua abiura e di punizioni ricevute dall’Inquisizione
per le sue idee. Bellarmino intende ristabilire la verità e arginare la marea montante
di discredito che rischia di travolgere nell’opinione pubblica toscana la reputazione
fino allora ottima del matematico, fisico e astronomo pisano, e a questo scopo
redige un documento in forma di lettera, che mi sembra utile riprodurre qui di seguito
per consentire al lettore di averne conoscenza diretta:
Roma, 26
Maggio 1616
Noi Roberto Cardinale Bellarmino, havendo inteso che il Sig. Galileo Galilei sia calunniato o
imputato di havere abiurato in mano nostra, et anco
di essere stato per ciò penitenziato di penitentie salutari,
et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto Sig. Galileo non ha
abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi
sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, né manco ha ricevuto penitentie salutari né d’altra sorte, ma solo gl’è stata denuntiata la dichiarazione fatta da N. Sig. et pubblicata
dalla Sacra Congregazione dell’Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita
al Copernico sia contraria alle Sacre Scritture, et però non si possa difendere
né tenere. Et in fede di ciò habbiamo scritta e sottoscritta
la presente di nostra propria mano, questo dì 26 Maggio 1616[41].
Lo scritto, autografato con tutti i crismi dell’ufficialità,
è concepito come una sorta di “salvacondotto” che Galileo può esibire a qualunque
tribunale locale e in qualsiasi circostanza creata ad arte da quei nemici
impegnati in una battaglia personale contro lui, quali Ludovico delle Colombe, Tommaso
Caccini e Niccolò Lorini.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-02 ottobre 2021
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Tycho Brahe era nato Knutstorp
nella Scania o Skåne, contea della Svezia allora appartenente al Regno di
Danimarca.
[2] Copernico non cercava notorietà
personale e non ambiva alla pubblicazione dei suoi studi. In una lettera a Keplero
del 1597, Galileo chiama Copernico “nostro maestro” e fa riferimento al fatto che
era oggetto di “derisione nella moltitudine degli stolti” (cfr. E. Bellone, op.
cit. p. 9).
[3] Cfr. Enrico Bellone, op. cit., p.
9.
[4] Dialogo de
Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova, cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 11.
[5] Cfr. Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain and
How It Changed the World, p. 27, Free Press (Simon & Schuster), New York
2004.
[6] Sono documentati i rapporti di cordiale
consuetudine, se non di vera e propria amicizia, di Galileo con il rigorosissimo
filosofo aristotelico Cesare Cremonini, docente di filosofia naturale.
[7] Questo è il titolo originale della
sua opera tradotto dal greco; Il titolo Almagesto (Il grandissimo)
è quello della versione araba che si era diffusa in Europa ed era stata tradotta
in latino da Gherardo da Cremona, famoso per aver introdotto la denominazione “algebra”
per indicare la nuova branca della matematica, traducendo il Kitab al-jabr
di al-Khwārizmī, in cui compare il termine arabo che letteralmente voleva
dire “completamento” (v. Enciclopedia della Matematica Treccani, 2013).
[8] Pubblicato solo nel 1543, l’anno
della morte di Copernico, e per alcuni anni noto solo alla ristretta cerchia degli
astronomi.
[9] Da sottolineare che in seno alla
Chiesa molti erano entusiasti delle sue teorie. Il cardinale Nikolaus von Schönberg
nel novembre del 1536 invia a Copernico una lettera encomiastica in cui lo invita
a spedirgli tutto il materiale delle sue osservazioni, offrendosi di occuparsi
personalmente della pubblicazione per un’ampia diffusione fra gli studiosi.
[10] In Italia imparò il greco. Si ritiene
che a Ferrara, dove si laureò in Diritto Canonico, abbia letto gli scritti di
Platone e Cicerone sulle opinioni degli antichi circa il movimento della Terra.
Copernico aveva trovato la teoria eliocentrica in Aristarco di Samo (III sec.
a.C.) il quale aveva tratto da Eraclide Pontico l’idea che la Terra, oltre ad orbitare
intorno al Sole, ruotasse su sé stessa dando luogo alle stagioni.
[11] Nel corso degli anni ho avuto modo
di riconoscere negli scienziati dei nostri giorni una marcata tendenza psicologica
(bias) a riconoscere grande valore alla cornice teorica e culturale entro
cui si sviluppano le ricerche. È facile comprenderne l’origine: se si perde il
quadro di valore e di legittimazione degli studi, i ricercatori di fatto non hanno
più scoperto nulla, il loro lavoro è vanificato e si priva di senso una parte
della loro vita professionale.
[12] Galileo, Lettera a Paolo Sarpi
del 16 ottobre 1604, cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 26.
[13] Enrico Bellone, op. cit., p. 29;
si veda in particolare: Dalla certezza all’approssimazione, pp. 25-33.
[14] L’illustrazione di questa concezione
e l’esemplificazione del tipo di procedimenti mentali caratteristici richiederebbe
troppo spazio, per cui rimando alle mie lezioni e ai vari scritti che ho dedicato
all’argomento, oltre che naturalmente al saggio originale: Edward De Bono, Il
pensiero laterale – come produrre idee sempre nuove, BUR Rizzoli, Milano
1969-2020. La XIX edizione del 2020 è stata l’ultima, perché De Bono è deceduto
il 9 giugno 2021.
[15] Poi battezzati satelliti
medicei o galileiani. L’identificazione si fa risalire al 7 gennaio.
Galileo deduce che orbitano intorno a Giove, e considera quest’evidenza un argomento
a favore della teoria eliocentrica, perché era una dimostrazione che non tutti
i corpi celesti ruotano intorno alla terra come voleva il sistema tolemaico.
[16] Cfr. Galileo Galilei, Contro il
portar la toga, Edizioni ETS, Pisa 2005.
[17] Il suggerimento di questi modi non
convenzionali fa pensare all’uso del “pensiero laterale” da me ipotizzato in
precedenza.
[18] Il “drento” è per far rima con “vento”.
Quaranta anni dopo, l’ex-allievo Renieri informa Galileo che Fantoni a Pisa ha ripristinato
l’obbligo di toga per i medici e chiede il testo di Contro il portar la toga;
Galileo lo invia e Renieri risponde che lui e gli amici hanno “riso un pezzo”.
[19] Vi erano anche i Cardinali Francesco
Maria Del Monte e Maffeo Barberini, futuro pontefice, oltre a Federico Cesi.
[20] Ludovico Geymonat, Galileo Galilei,
p. 63, Einaudi, Torino 1957.
[21] Cioè con i sensi, con l’osservazione
diretta [la nota di precisazione è dello stesso Galileo].
[22] Francesco Iovine, Galilei e la
Nuova Scienza, La Nuova Italia Editrice, p. 2, Firenze 1987.
[23] Cfr. Ludovico Geymonat, op. cit.,
idem.
[24] Enrico Bellone, op. cit., p. 67.
[25] Enrico Bellone, op. cit., p. 68.
[26] Il papato di Urbano VII è il più
breve della storia: morì di malaria il 27 settembre 1590, dodici giorni dopo l’elezione.
[27] Dopo gli inizi del carteggio era
più spesso Paolo Gualdo a scrivere a Galileo. Negli epistolari troviamo quattro
lettere di Galileo all’arciprete e dodici lettere di questi all’astronomo,
oltre a un rimprovero di Gualdo perché Galileo a volte mancava di rispondere.
[28] Secondo Enrico Bellone questo
parere ebbe l’effetto di indurre Galileo a sottovalutare l’estendersi e l’inasprirsi
del movimento di opinione contro le sue tesi.
[29] Maffeo Barberini intorno al 1598
fu ritratto da Caravaggio (collezione privata, Firenze) che poi, secondo
Lionello Venturi (1912), Gianni Papi e Keith Christiansen (2010) eseguì un
secondo ritratto ora esposto a Palazzo Corsini (al Parione) in Firenze. Giulio
Mancini, medico di Barberini quando divenne Papa, scrive che Caravaggio ritrasse
più volte Maffeo prima che divenisse cardinale.
[30] Enrico Bellone, op. cit., p. 69.
[31] È la prima delle quattro lettere
copernicane di Galileo, divisa in due parti: la prima sul rapporto tra scienza e
fede, e la seconda dedicata al passo biblico in cui Giosuè comanda al sole di
fermarsi. Il carattere privato delle
lettere aggirava una disposizione del Concilio di Trento, che prescriveva
l’autorizzazione della Chiesa per la circolazione pubblica di qualsiasi scritto
di interesse religioso.
[32] Cit. in Enrico Bellone, op. cit.,
p. 70.
[33] Convenzionalmente è inclusa tra
le quattro “lettere copernicane” scritte da Galileo tra il 1612 e il 1615 a
Benedetto Castelli, Pietro Dini e Cristina di Lorena, nelle quali dimostra la
compatibilità delle sue idee con le Sacre Scritture.
[34] È la più antica delle
Congregazioni della Curia romana; riformata da Papa Sisto V che istituì altre 14
congregazioni con la Costituzione Immensa Aeterni Dei del 22 gennaio
1588.
[35] Denuncia che sarà poi adottata per avviare il primo processo
a Galileo.
[36] Paolo Antonio Foscarini, Lettera
sopra l’opinione de’ Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della Terra e
stabilità del Sole, e del nuovo Pittagorico sistema del mondo, p. 7, Lazaro
Scoriggio, Napoli 1615.
[37] Col precipitare degli eventi Galileo
si reca a Roma, come sappiamo da una lettera del Granduca Cosimo al Cardinale Scipione
Borghese: “…et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni,
o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da’ suoi emuli” (Cfr. Guido Morpurgo
Tagliabue, I processi di Galileo e l’epistemologia. Rivista di Storia della
Filosofia. Vol. II, 1947).
[38] L’Inquisizione adotterà e raccomanderà
il modello di Tycho Brahe, ad ulteriore conferma di quanto sia erroneo proporre,
come fanno Carl Zimmer e altri autori, una Chiesa aristotelica che perseguita
Galileo antiaristotelico (cfr. §32).
[39] “Invano essi mi rendono culto insegnando
dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15, 9): Gesù cita Isaia.
[40] Cfr. Guido Morpurgo Tagliabue, op.
cit.
[41]
Questo documento, come altre
citazioni tra virgolette non altrimenti specificate, sono tratte dalla seguente
raccolta di documenti: Roberto Vergara Caffarelli, Il laboratorio di Galileo
Galilei, Multimedia, 30 nov. 2011. Bellarmino donò tutti i suoi averi ai poveri,
così che visse e morì in povertà; fu poi canonizzato da Pio XI il 29 giugno
1930.