Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 02 ottobre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Sedicesima Parte)

 

32. La supernova del 1604, l’anno in cui Galileo scopre in modo misterioso la legge oraria del moto. Torniamo ora al 1604. Il frate Ilario Altobelli, astronomo, osserva una “stella nova” il 9 ottobre di quell’anno e ne informa Galileo; poi, con una lettera inviata da Verona il 30 dicembre, riferisce al matematico e fisico dello Studio di Padova che l’astro “quasi un arancio mezzo maturo” sarebbe stato visto e osservato per la prima volta il 27 settembre 1604. Dell’osservazione di Galilei non abbiamo documenti diretti; sappiamo che tenne tre lezioni che non ci sono pervenute su quella che appariva come una strana fonte di luce stellare, accostata alla sorgente variabile di luce del 1572, ma abbiamo documenti significativi sulle conseguenze dell’avvenimento. Intanto, dopo frate Altobelli, il 17 ottobre il fenomeno è osservato anche da Keplero, il quale pubblica un saggio divenuto in breve famoso e così intitolato: De Stella nova in pede Serpentarii. Su questo studio si basa l’attribuzione eponima attuale di Supernova di Keplero.

Il fenomeno delle supernove è costituito da gigantesche esplosioni termonucleari che si verificano in stelle di grande massa o in nane bianche; si tratta di processi catastrofici della dinamica stellare caratterizzati dall’emissione di una quantità di radiazione luminosa miliardi di volte superiore a quella del sole. All’epoca non si poteva neanche lontanamente immaginare una cosa simile e il problema principale sembrava essere quello di un corpo celeste che, essendo oltre la luna, doveva appartenere alla sfera degli elementi creati incorruttibili, stabili e immutabili per essenza.

La questione si era già presentata, come ho accennato prima, con la supernova del 1572; in quell’occasione l’astronomo danese Tycho Brahe[1] aveva trovato un compromesso in grado di spiegare il fenomeno senza contraddire la tesi dell’immutabilità perfetta del cielo lontano, ossia quello inteso in senso mistico: il nuovo astro luminosissimo sarebbe stato non lontano dal cielo delle stelle fisse ma formato da materia celeste imperfetta e tale da potersi dissolvere in breve tempo.

Galileo, per la supernova del 1604 effettuò una serie di misure, in base alle quali dedusse che si trattava di un elemento stellare, perché non si spostava rispetto alle stelle circostanti. Dunque, sosteneva trattarsi di un astro mutevole, pur appartenendo al cielo immutabile. Questa posizione fece scalpore e indusse l’immediata reazione degli intellettuali padovani, secondo i quali solo il filosofo che indaga le essenze è autorizzato a parlare della reale struttura del cosmo, mentre l’astronomo deve limitarsi a effettuare calcoli e misure.

Galileo, che non aveva la virtù dell’umiltà di Copernico[2] e sapeva che sostenere tesi supportate da autorevoli colleghi di altri paesi avrebbe potuto giovare alla sua carriera universitaria, si espose affermando che la supernova non poteva appartenere all’ordine dei fenomeni meteorologici e sublunari, ma secondo i suoi calcoli doveva essere un corpo celeste appartenente alle cosiddette stelle fisse. In realtà, dai fogli che ci sono pervenuti, non sembra che avesse effettuato misure particolarmente accurate, ma solo sufficienti a confermare che la stella nova non si spostasse[3].

Le tre lezioni che tenne a Padova sull’argomento furono seguite da molti e le affermazioni in contrasto con il dogma tolemaico furono immediatamente oggetto di discussione e dibattito. A parte l’opposizione preconcetta del milanese Baldassarre Capra, che in seguito lo accusò di avergli rubato l’invenzione del “compasso geometrico e militare”, vi fu la pubblicazione di argomentazioni che confutavano le sue tesi in un opuscolo firmato “Antonio Lorenzini aristotelico di Montepulciano”, probabile pseudonimo di un docente patavino.

La risposta di Galileo non si fece attendere molto e fu realizzata con intento satirico e gusto teatrale grazie all’aiuto del monaco benedettino Girolamo Spinelli, ammiratore dell’astrofisico pisano ed esperto del dialetto patavino, che redasse con lo pseudonimo di Cecco di Ronchitti da Bruzene, e verosimilmente sotto dettatura galileiana, il divertente testo di un dialogo tra due contadini, Matteo e Natale, che nell’agreste idioma locale discutevano la tesi che i matematici dovessero conoscere l’essenza metafisica delle stelle per poterle misurare, mostrando come fosse sufficiente il comune buon senso di uomini del tutto privi di cultura per confutare e ridicolizzare quella tesi.

Il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova raggiunge gradevoli effetti umoristici quando alle ragioni a sostegno della necessità di conoscere l’essenza delle stelle, pedestremente esposte da Natale che fa da spalla, Matteo risponde che se anche le stelle fossero di polenta per la misurazione non cambierebbe nulla; e quando, immedesimandosi nei problemi creati dalla nuova stella, esclama: “Cànchero, l’ha avuto torto questa stella a rovinare così la filosofia di costoro”[4].

Le due tesi su cui lo scopritore dei satelliti di Giove incontrò maggiori obiezioni e contestazioni nell’ambiente accademico si possono così sintetizzare: i problemi astronomici si risolvono solo sulla base di misure e non di considerazioni metafisiche; l’essenza metafisica delle stelle è il portato di speculazione e, in quanto tale, non è di interesse matematico.

Oggi, alcune semplificazioni didattiche e divulgative che si sono affermate prima nei paesi di lingua inglese e poi hanno avuto diffusione globale, rappresentano una Chiesa paladina del pensiero di Aristotele che perseguita Galileo Galilei impegnato in una personale battaglia contro il filosofo greco, come si legge anche in Carl Zimmer[5]. La realtà storica è complessa e differente nella sostanza e, probabilmente, questa è la peggiore semplificazione possibile. Era Platone il filosofo greco integrato nella cultura cristiana dal Medioevo al neoplatonismo dell’Accademia fiorentina; Aristotele, filosofo della natura per eccellenza, non credeva nell’immortalità dell’anima e la sua concezione ontologica è in radicale contrasto con la visione cristiana di un Dio Creatore. Infine, l’interesse principale di Galileo non era certo quello di elaborare una filosofia antiaristotelica[6].

A questo fraintendimento si è giunti per ignoranza della storia della cultura occidentale ed estrema superficialità nell’intendere qualche stringato resoconto del contesto in cui l’astrofisico pisano aveva presentato le sue tesi.

In realtà, la visione aristotelica del cosmo, che rappresenta una piccola e trascurabile parte dell’imponente edificio filosofico costruito dal pensatore di Stagira, è impiegata dall’establishment universitario seicentesco quale fondamento teoretico della visione cosmologica di Claudio Tolomeo, un matematico egiziano alessandrino di cultura greca del II secolo d.C., considerato tra i massimi astronomi e geografi dell’antichità. Il suo sistema tolemaico, descritto nell’opera Sintassi matematica[7] con la Terra al centro e il Sole e la Luna che vi girano intorno, per un millennio e mezzo ha costituito una concezione che accomunava tutti, dagli astronomi alla gente comune, al punto che, quando si diffonde la teoria eliocentrica esposta dall’astronomo polacco Niccolò Copernico nel saggio De rivolutionibus orbium coelestium[8], sarà coniata l’espressione “rivoluzione copernicana”, letteralmente riferita al movimento dei pianeti intorno al sole, ma metaforicamente intesa come il più grande sovvertimento immaginabile nel modo di concepire la realtà. È da questa espressione che deriva per traslato il concetto di “rivoluzione” in politica, inteso come un completo sovvertimento delle istituzioni di governo di un paese.

Da notare che Copernico era un canonico della Congregazione riformata dei Canonici Agostiniani e, sebbene la sua opera principale sia stata pubblicata tardi, già nel 1514 aveva comunicato la sua teoria della rivoluzione della Terra intorno al Sole, secondo quanto era stato intuito da alcuni filosofi antichi, attraverso il Commentariolus, un breve trattato contenente i suoi sette postulati della teoria eliocentrica, che aveva distribuito personalmente fra amici e colleghi[9]. Copernico aveva studiato con Fracastoro e Gaurico a Padova[10], dove era rimasta traccia dei suoi studi.

La questione fondamentale è che Galileo Galilei aveva sposato a pieno la visione di Copernico, dalla quale aveva preso le mosse, ma invece di minimizzare la portata del suo impatto teorico sulla visione metafisica dominante, aveva evidenziato l’insostenibilità delle tesi tolemaiche alla luce delle nuove conoscenze: lo scopo diretto, consapevole e immediato è quello di sottrarre la dimensione fisica dell’universo alle nebbie metafisiche per farne oggetto riconosciuto dell’indagine scientifica. Un secondo fine, facilmente deducibile anche se non direttamente documentato perché psicologico, è il poter recitare un ruolo da protagonista in questa transizione[11].

La maggioranza dei contemporanei considerava Copernico solo un buon canonico e non sapeva nulla del rivoluzionario approdo dei suoi studi; Galileo vuole evitare che si continui a trascurare e misconoscere il progresso compiuto, nell’interesse della scienza e per la propria fama personale.

Nel 1604, oltre tutti gli eventi che ho menzionato, si verifica un fatto assolutamente singolare negli studi di Galileo Galilei che, se fosse divenuto di pubblico dominio, avrebbe indotto i suoi superstiziosi clienti che andavano a chiedergli l’oroscopo a dedurre un patto col diavolo. Come sia stato possibile quanto oggi possiamo apprendere in dettaglio ed esaminare alla luce delle conoscenze attuali, non è facile dirlo, ma qui di seguito esporrò in sintesi l’accaduto, così che il lettore possa trarne una personale opinione.

Il 16 ottobre Galileo invia una lettera all’amico Paolo Sarpi in cui scrive che a lungo gli era mancato un principio che gli consentisse di spiegare tanti singoli fatti osservati nello studio del movimento, ma che ora lo ha trovato, ed è “talmente naturale ed evidente da poter essere giudicato totalmente indubitabile e, di conseguenza, così vero da poter essere impiegato come assioma”[12]. Cosa ha trovato? Studiando l’impatto, che lui chiama “percossa”, di un grave su un corpo deformabile, ha desunto in che modo cresce la velocità di un oggetto mobile, e scrive così: “Il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto”.

L’enunciato non è affatto chiaro, e dunque Galileo provvede a corredarlo di una figura che schematizza lo spazio percorso da un oggetto che cade, mediante una linea verticale ripartita in cinque segmenti, e fornisce una dimostrazione del suo principio “indubitabile”, che in sostanza implica che, nella caduta libera, la velocità posseduta dal grave in un dato punto sia direttamente proporzionale allo spazio percorso. Ma oggi sappiamo che questa idea è sbagliata, perché la velocità nella caduta libera è proporzionale al tempo trascorso dall’inizio del moto, e non alla distanza percorsa.

Cosa c’è di strano in un errore di Galileo? Ecco cosa: Enrico Bellone affrontando il problema, dopo due pagine di dimostrazioni e analisi critica del ragionamento galileiano, scrive: “E qui il nostro scienziato si esibisce in una vera e propria acrobazia logica”[13], perché parte da una premessa sbagliata, sviluppa ragionamenti erronei e, infine, enuncia una nuova legge che è la chiave di volta della nuova meccanica e ha un ruolo di eccezionale rilievo per la nascita della fisica moderna: quando un oggetto nel campo gravitazionale cade liberamente lungo la sua verticale, gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi necessari per percorrerli.

Se uno studente sbaglia tutto il compito e poi lo conclude con il risultato giusto, si pensa che il risultato l’abbia copiato. Ma, da quanto ne sappiamo, nessun altro era giunto alla formulazione di questo principio. È quasi come se la legge gli fosse stata suggerita e lui avesse provato a risalire ai ragionamenti e ai procedimenti che l’hanno generata, senza peraltro riuscirvi.

Galileo ha così scoperto la legge oraria del moto, una delle leggi fondamentali della meccanica moderna, partendo da un presupposto erroneo e sviluppando un ragionamento che appare come un goffo tentativo di far quadrare la legge con la premessa da cui sarebbe stata dedotta. Come spiegare questo mistero senza fare ricorso a ipotesi irrazionali? Voi cosa ne pensate?

Per quanto mi riguarda, ritengo che Galileo abbia impiegato un procedimento cognitivo non convenzionale, ossia non sviluppato secondo logica aristotelica, ma seguendo quel modo di usare l’intelligenza che lo studioso melitense di processi cognitivi Edward De Bono chiamava pensiero laterale, per distinguerlo dalla logica convenzionale descritta come procedimento verticale[14]. In poche parole, la conoscenza implicita che gli era derivata da tutti gli esperimenti compiuti lo ha indotto intuitivamente a provare se la proporzione quadratica potesse essere all’origine di tutti i dati di misura che aveva ottenuto e, avuta la conferma, da questo nucleo ha poi sviluppato, secondo “logica verticale”, i suoi ragionamenti.

Questo modo di procedere non deve essere considerato come una generica eccezione alla regola di ragionare per induzione e deduzione sulla base di premesse certe, ma come una possibilità di provare o “sperimentare con la mente”, riservata alle circostanze in cui si cerca di accedere a un nuovo dominio di conoscenza senza ancora disporre degli elementi necessari all’esercizio logico ordinario.

L’uso di un procedimento cognitivo non convenzionale apre un piccolo spiraglio al tentativo di accedere al campo della mente di Galileo, o almeno a una parte del suo stile psichico e, per quanto mi riguarda, mi ha indotto a rileggere sotto una luce diversa i suoi scritti giovanili, non più solo come espressione di intolleranza verso i vuoti rituali accademici, ma quale testimonianza di un modo nuovo di concepire l’esperienza conoscitiva.

 

33. Il complotto ai danni di Galileo per arrestarne l’ascesa che minacciava centri di potere accademico e politico. Nel 1610, quando lascia Padova per tornare a Firenze come “Matematico e Filosofo” del Granduca di Toscana, Galileo ha compiuto gli studi sulla fisica del moto scoprendo la forma parabolica della traiettoria dei proiettili, ha persuaso il Doge sulle potenzialità militari del suo “cannone occhiale” con una dimostrazione effettuata il 21 agosto 1609 dal campanile di San Marco, ottenendo un generoso compenso dal Senato veneziano, e soprattutto ha pubblicato il Sidereus Nuncius (13 marzo 1610) in cui descrive e disegna l’accidentata superficie lunare, identifica la Via Lattea come ammasso di stelle e altri corpi celesti, e descrive la scoperta di quattro satelliti di Giove: Io, Europa, Ganimede e Callisto[15].

A Firenze ritrovava alcuni vecchi amici e molti fra avversari, oppositori e detrattori, anche perché Galileo considerava sfide, contese, dibattiti, controversie e dispute come il sale della vita, ma sembra che non brillasse per savoir faire e che, dileggiando e denigrando gli avversari, si rendesse antipatico o addirittura odioso.

Da giovane la sua sfrontatezza con le autorità e la lucida intelligenza con la quale le metteva alla berlina gli avevano procurato molto seguito; d’altra parte, il suo stile anticonformista e il suo dichiarato preferire la sostanza del valore delle persone alla rispettabilità conferita dai ruoli sociali erano graditi a molti suoi coetanei, come alla maggioranza dei giovani di ogni epoca, rimanendo sgraditi ai “custodi dell’ordine ordinario”, per dirla con Musil, ossia a coloro che proteggevano il codice di simboli sociali entro cui si rappresentava il proprio potere.

Un efficace esempio dello spirito del giovane Galileo lo troviamo in Contro il portar la toga, un poemetto di 300 versi in terzine di endecasillabi scritto a ventisei anni nello stile del Berni, prendendo spunto da una nuova disposizione, verosimilmente promossa dagli stessi professori universitari, che prevedeva l’obbligo di indossare la toga in tutte le occasioni sociali e non solo nell’esercizio delle proprie funzioni, così da costituire un segno di distinzione, indicando quasi l’appartenenza a una casta[16].

Leggiamone qualche verso. Per trovare il bene suggerisce di cercare il male e fare il contrario: non serve seguire cavillose speculazioni teoretiche, ma basta apprendere dall’esperienza. E poi: “a chi vuol una cosa ritrovare,/ bisogna adoperar la fantasia,/ e giocar d’invenzione, e ‘ndovinare”[17]. Poi paragona i professori ai fiaschi: quelli “che non hanno niente indosso”, ossia non sono fiaschi impagliati, sono pieni di eccellente vino, mentre quelli che hanno veste delicata, ossia nascondono il loro interno “…o son pieni di vento/ e di belletti o d’acque profumate,/ o son fiascacci da pisciarvi drento[18].

Vent’anni dopo Contro il portar la toga le cose sono profondamente mutate: non è più il tempo delle caustiche ironie, delle metafore canzonatorie, delle parodie goliardiche, delle beffe satiriche, della critica sarcastica, di versi derisori concepiti per suscitare il riso verso i detentori del potere accademico e il consenso per la propria consorteria; Galileo non è più un giovane contestatore, ma un accademico quarantaseienne protagonista della vita culturale e in irresistibile ascesa nel potere di contrattualità politica, perché sotto la diretta protezione del Granduca di Toscana. L’astronomo, che grazie al Sidereus Nuncius è assurto a fama internazionale, è divenuto una figura ingombrante per chi l’aveva fatta da padrone negli atenei toscani mentre lui era a Padova.

Intanto, il 29 marzo del 1611 Galileo si reca a Roma per presentare le sue scoperte alle maggiori autorità scientifiche dell’epoca, ossia i Gesuiti docenti presso il Collegio Romano. Non solo viene accolto con tutti gli onori dallo stesso Papa Paolo V[19], ma nasce anche una breve collaborazione con i Gesuiti, come apprendiamo da una lettera scritta tre giorni dopo al segretario ducale Belisario Vinta: “[I Gesuiti] avendo finalmente conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne hanno fatto da due mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo riscontrate con le mie, e si rispondano giustissime”[20].

All’inizio dell’anno, oltre a occuparsi delle macchie solari che aveva già osservato a Padova e sulle quali pubblicherà dopo, soprattutto in relazione alla dimostrazione della rotazione del sole su sé stesso, scrive all’Arcivescovo di Pisa Giuliano de’ Medici: “Venere necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i Pitagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente[21] provata, come ora in Venere e Mercurio”[22].

Il 19 di aprile dello stesso anno il Cardinale Roberto Bellarmino chiede ai matematici vaticani una relazione sulle nuove scoperte; il 17 maggio la Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione chiede formalmente all’Inquisizione di Padova se Galileo Galilei fosse stato indagato in precedenza: non conosciamo la risposta, ma possiamo immaginarla[23].

Avevo già anticipato, a proposito del deferimento al tribunale patavino, che i veri problemi per Galileo Galilei hanno inizio a Firenze per una trama ordita da Ludovico delle Colombe con i suoi sodali della Lega dei colombi. Un sintetico ed efficace ritratto di questo acerrimo nemico del fisico pisano si ricava dalle parole di Enrico Bellone: “La figura di Ludovico delle Colombe è singolare ma non troppo. Un tuttologo, come forse lo si definirebbe oggi, che a tutto era disposto pur di circondarsi della fama di persona potente e colta, e che in modo impressionante fa venire alla mente certi nostri contemporanei professori universitari sempre inclini non alla ricerca, ma all’intrigo e alla chiacchiera”[24].

I motivi che inducono il delle Colombe a tramare contro Galileo sono tra i più meschini e, purtroppo, all’origine di molti giochi di potere che determinano ancora oggi nelle università italiane soprusi, esclusioni e azioni di mobbing nei confronti di colleghi e giovani candidati indesiderati. L’arrivo di Galileo andava a turbare il dominio incontrastato di una consorteria che gestiva ogni cosa secondo interessi privatistici dissimulati da un’apparenza di correttezza formale e, soprattutto, facendo leva sul prestigio culturale di cui la Lega dei colombi godeva presso il clero e le istituzioni.

Proprio questa reputazione rischiava di essere compromessa per effetto della nuova visione della fisica e del cosmo portata da Galileo Galilei che, dopo essersi guadagnato a colpi di scoperte sensazionali la stima e l’ammirazione dei più eminenti colleghi europei, del Doge e del Granduca di Toscana, aveva in mente di rinnovare l’insegnamento delle materie scientifiche, non limitandosi a introdurre le nuove nozioni astronomiche, ma illustrandone la coerenza col sistema copernicano, che nelle sue intenzioni doveva sostituirsi all’obsoleto sistema tolemaico, gettando alle ortiche tutte le ubbie pseudo-aristoteliche di cui si nutrivano i custodi dello status quo.

Ludovico delle Colombe decide allora di porre in essere un’attività capillare di “informazioni riservate” sulle intenzioni di Galileo di destabilizzare l’ordine delle coscienze stabilito sullo stretto legame tra razionalità e tradizione, allo scopo di screditarlo presso le autorità accademiche e religiose, che sarebbero state attente a riconoscere e rintracciare in ogni suo scritto e in ogni suo pronunciamento i possibili segni dell’eversione.

Dopo aver preparato il terreno, il capo della Lega dei colombi decide di servirsi strumentalmente degli esponenti del potere ecclesiastico più facilmente manipolabili e sobillabili per ottenere un intervento di censura verso il rivale accademico, da impiegare per porre in atto una campagna di discredito e delegittimazione. L’intenzione era quella di far cambiare l’immagine popolare di Galileo, e cercare di rovinargli la reputazione per ottenere con maggiore facilità l’allontanamento dall’ateneo. A questo scopo, la Lega ritiene sia necessario un intervento di comunicazione rivolto al pubblico, che si rappresenti come fatto oggettivo e relativo alle responsabilità di Galileo verso tutta la comunità dei credenti.

In proposito Bellone scrive: “A quanto pare fu proprio il delle Colombe colui che, in un incontro svoltosi sul finire del 1611 nell’abitazione dell’arcivescovo fiorentino, propose di fermare Galileo non con ragioni scientifiche, ma con argomenti di natura religiosa: occorreva, insomma, che un prelato intervenisse pubblicamente, e cioè dal pulpito, per porre un freno all’irruenza con cui Galileo continuamente attaccava le basi stesse del sapere”[25].

Da quanto risulta, il complotto non ottiene effetti immediati. Non sappiamo perché, possiamo solo ipotizzare che l’arcivescovo non abbia subito abboccato all’amo, magari perché ha dedotto il secondo fine e compreso il tentativo di strumentalizzazione, o semplicemente perché ha considerato che Galileo non sollevava problemi in termini di verità di fede, e seguiva una teoria scientifica di un canonico agostiniano, quale era Copernico, e non di un pericoloso apostata o eresiarca.

Ma la trama dei “colombi” continuava ad essere tessuta, individuando degli ignari alleati in alcuni frati sensibili al pericolo che la fisica e l’astronomia galileiane attaccassero alle fondamenta l’edificio della cultura cristiana, rischiando di causare perdita di fede negli insegnamenti della Chiesa. Galileo rimane ignaro, soprattutto circa la diffusione fuori della Toscana di opinioni e insinuazioni volte a suscitare avversione nei suoi confronti, così che un suo fedele amico e ammiratore, quale Paolo Gualdo, Arciprete della cattedrale di Sant’Antonio da Padova, lo avverte per lettera di quanto sta accadendo e gli suggerisce di essere prudente. È importante questo intervento epistolare e merita un piccolo approfondimento.

Paolo Gualdo, un sacerdote letterato ed erudito aveva goduto della stima dello sfortunato Papa Urbano VII[26], dal quale era stato nominato “segretario dei memoriali”, era grande amico del Caravaggio, del Palladio, di Torquato Tasso e di Gian Vincenzo Pinelli, un umanista napoletano cultore di matematica e astronomia trasferitosi presso lo studio di Padova. Gualdo aveva presentato Galileo a Pinelli che, impressionato dalle doti del matematico pisano, era in breve divenuto suo mentore in Padova. Dunque, oltre alla reciproca stima, c’era da parte di Galileo gratitudine nei confronti dell’Arciprete. Gualdo, che era anche vicario dell’Arcivescovo, aveva costantemente il polso politico del momento, tanto dell’ateneo patavino quanto della Chiesa; per questo Galileo teneva nella massima considerazione la sua opinione e, da quando era tornato a Firenze, gli scriveva per avere notizie dello Studio di Padova[27].

L’Arciprete di Sant’Antonio nel 1612 gli scrive che le sue idee, se proposte quali tesi teoriche, sarebbero sempre state rifiutate e combattute da filosofi e teologi che concepiscono la teoretica, in un certo senso, come scienza della verità. Per questo gli consiglia di proporle quali ipotesi in una riflessione partecipata, così che possano essere oggetto di discussione; dopotutto, osservava Gualdo, le controversie godono di libertà in quanto “molte cose si possono dire per modo di disputa”, mentre porre le proprie tesi non come deduzioni da calcoli giusti, ma quali apodittiche verità può essere pericoloso “quando s’ha l’opinione universale di tutti contra”.

Galileo fa tesoro del consiglio, e dalle parole di Gualdo desume anche un’importante informazione: non ha più solo un problema con una consorteria fiorentina, ma si è creato un movimento di opinione contro le sue tesi, che sicuramente ha raggiunto il Veneto e la Curia di Roma. Allora Galileo si rivolge al Cardinale Conti per avere da un uomo di profonda fede un giudizio scevro da condizionamenti sulla sua opera e sul suo operato.

Siamo nell’estate del 1612 e la risposta di Conti conforta Galileo: non può esserci contrasto tra l’astronomia galileiana e le Sacre Scritture, perché i testi sacri non sono trattati concepiti per istruire gli uomini di scienza sui fatti della natura, ma scritti morali ispirati, rivolti al “volgo” perché seguendo la parola di Dio possa salvarsi[28].

Nell’autunno del 1612 si diffuse ad arte, così che giunse all’orecchio dello scopritore dei satelliti di Giove, che un frate fiorentino, parlando di un tale Ipernico, affermava che le sue teorie sul moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole non fossero compatibili con la Bibbia. Il nome sbagliato di Copernico era stato suggerito al religioso perché non si scoprisse che vi era dietro un’iniziativa nata in ambienti accademici, dove l’identità dell’autore del De rivolutionibus orbium coelestium era ben nota.

Nel 1612 Galileo scrive e pubblica il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, in cui dimostra che il galleggiamento obbedisce al principio di Archimede e non dipende dalla forma come voleva Aristotele, provocando la risposta polemica di Ludovico delle Colombe, che pubblica il Discorso apologetico d’intorno al Discorso di Galileo Galilei, del letterato e aristotelico fiorentino Ludovico delle Colombe.

La reazione di Galileo è eclatante e ottiene un risultato che si può considerare una vera e propria vittoria sull’avversario. Nella magnificenza di Palazzo Pitti, alla presenza del Granduca, della Granduchessa, del Cardinale Maffeo Barberini[29] ed altre autorità, il 2 di ottobre del 1612 realizza un esperimento acquatico di pubblica dimostrazione che i corpi galleggianti in acqua, indipendentemente dalla loro forma ricevono una spinta dal basso verso l’alto pari al peso dell’acqua spostata: gli astanti, tutti molto impressionati ed ammirati, diventano spontanei testimoni della definitiva risoluzione della disputa.

Il 2 di novembre, nel giorno della commemorazione dei defunti, si verifica il primo effetto eclatante del complotto ordito da Ludovico delle Colombe e la sua consorteria: Niccolò Lorini, priore di San Domenico a Fiesole e professore di storia ecclesiastica allo Studio di Firenze, in una disputa tenuta nel convento fiorentino di San Matteo, per primo tacciò di eresia la dottrina copernicana del moto della Terra, attaccando e condannando le idee galileiane.

Con astuta falsità, Niccolò Lorini inviò subito una lettera di scuse a Galileo, sia per prevenire sue reazioni e il rischio di uno scontro diretto, che voleva evitare in quel momento in cui l’astrofisico era ancora abbastanza forte e protetto, sia per rassicurarlo e continuare a tramare in segreto contro di lui, fino a portare dalla propria parte la maggioranza delle personalità più influenti.

A questo punto, Galileo è pienamente consapevole delle dimensioni del movimento di opinione montato ad arte contro di lui, e sceglie di non andare allo scontro frontale come era solito fare nelle controversie scientifiche, tenendo una condotta estremamente prudente.

Enrico Bellone scrive: “In occasione di un pranzo di corte tenutosi a Pisa, l’insinuazione escogitata dai «colombi» sull’inconciliabilità tra le idee di Galileo e la fede religiosa fu portata sino alle orecchie della devotissima granduchessa Cristina di Lorena”[30]. Cosa era accaduto? Approssimandosi il periodo natalizio del 1613, Benedetto Castelli, amico ed ex-allievo di Galileo, era stato invitato da Cosimo II de’ Medici e Cristina di Lorena a Pisa per un convivio, durante il quale si tenne un dibattito scientifico al quale parteciparono dei sostenitori della tesi di Ludovico delle Colombe, secondo il quale il moto della Terra era incompatibile con la Bibbia. Benedetto Castelli si assunse l’onere di difendere la posizione galileiana e poi, appena rientrato dal pranzo, avvertì Galileo, così che, insieme, potessero decidere una “linea di difesa” contro l’onda crescente del dissenso pregiudiziale.

Secondo quanto concordato, seguendo lo stile del protocollo diplomatico, lo scopritore dei crateri lunari scrisse una lettera[31] al suo allievo, per dichiarare il suo reale pensiero sul rapporto tra scienza e fede, e per affermare una totale innocenza circa l’apparente contraddizione del risultato dei suoi studi con interpretazioni letterali delle Sacre Scritture, ribadendo l’idea del Cardinale Conti, di Padre Paolo Gualdo e dei gesuiti romani, che la teologia è la massima depositaria della veritas de fide, mentre la scienza cerca la veritas de rerum natura, per cui non vi è conflitto tra teologia e astronomia, ma solo differenza di oggetto tra scienza e metafisica.

La lettera di Galileo a Benedetto Castelli, fatta circolare in copie dallo stesso destinatario per renderne noto il contenuto, doveva servire come prova autentica – perché scritta nella spontanea sincerità di una comunicazione privata – della rettitudine dell’animo e delle intenzioni dello scienziato.

Ma, proprio in quei giorni, la Lega dei colombi decide di giocare la carta dell’estremismo religioso intransigente, che in Firenze aveva sempre riscosso successo presso una parte del popolo: il 20 di dicembre del 1613 dal pulpito di Santa Maria Novella il frate domenicano Tommaso Caccini pronuncia una violentissima invettiva dai contenuti senza precedenti nella storia del cristianesimo. Infatti, Caccini si scagliò con una veemenza inusitata contro la matematica che, al culmine di un adirato crescendo, definì “arte diabolica”, e condannò senza appello tutti i matematici in quanto “eretici”.

Alla predica, come è facile immaginare, avevano assistito dei “testimoni” con il compito di riferire i contenuti in Vaticano. E da Roma la reazione è immediata: Padre Maraffi scrive a Galileo, prendendo le distanze dallo “scandalo” delle parole di Caccini e per biasimare coloro che nelle gerarchie vaticane si sono mostrati sensibili agli argomenti dell’invettiva del frate domenicano. Infatti, nei secoli il cristianesimo aveva sempre promosso la cultura della conoscenza, sia per coltivare virtù dello spirito sia per ottenere sapienza, senza contare che, fin dal Medioevo, la massima parte dei matematici e degli astronomi era costituita da religiosi.

La copiosa documentazione di cui oggi si dispone, ci consente di affermare con certezza che furono molte le voci che si levarono sdegnate dal Vaticano contro l’espressione di fanatismo di Tommaso Caccini, anche se fra queste la più diretta rimane la citata comunicazione epistolare: “E, nella lettera, Galileo trova una ulteriore conferma del complotto che lo aveva indicato come bersaglio. Padre Maraffi infatti osservava che, a suo avviso, il frate fiorentino aveva esposto «quello che gli detta la rabbia di altri e la pazzia et ignorantia propria»”[32].

Se pure condannata da molti, l’invettiva era però servita a spostare l’asse del giudizio vaticano da una posizione intermedia tra tolemaici e copernicani ad una difesa della tradizione, quale prudente prevenzione di una pericolosa e imprevedibile deriva verso una riformulazione matematica del senso del creato.

Il certosino lavoro sporco della Lega dei colombi comincia a ottenere risultati tangibili, e il mutamento del clima culturale è percepito anche dal principe Federico Cesi che, in qualità di presidente dell’Accademia dei Lincei oltre che di amico personale, raccomanda cautela a Galileo, perché il Cardinale Roberto Bellarmino, che non molti anni prima aveva avuto un ruolo di giudice nel tribunale dell’Inquisizione che condannò al rogo Giordano Bruno, si stava attestando su posizioni anti-copernicane.

Nel 1613 Galileo impone a Virginia e Livia, le figlie orfane di Marina Gamba, di andare a vivere nella regola del Convento di San Matteo, anche perché le due fanciulle in sua tutela erano di fatto affidate alla madre Giulia Ammannati, che non poteva più provvedervi. Di suor Maria Celeste e suor Arcangela ho già detto in precedenza.

Non abbiamo documenti rilevanti per gli eventi del 1614, ma nel 1615 sembra compiersi il tempo atteso da Niccolò Lorini, il professore di storia ecclesiastica dello Studio di Firenze con un ruolo chiave nel complotto, che aveva impiegato come ballon d’essai il tacciare di eresia la tesi copernicana e galileiana del movimento della Terra, scusandosi subito dopo con Galileo per lettera: ora ritiene di poter sferrare il suo attacco. Come procede? Si procura una copia di quella lettera scritta per scagionarsi da Galileo a Benedetto Castelli[33], ne altera alcuni punti, sottolinea i passi che possono essere strumentalmente usati per incriminarlo e il 7 febbraio del 1615 la invia al Segretario della Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione[34], corredandola con una formale denuncia di eresia[35].

I membri dell’Inquisizione però si insospettiscono: la manipolazione ad arte crea una maggiore evidenza di colpa, ma è poco plausibile; dunque, danno ordine di rintracciare la lettera originale e si riservano di giudicare il testo autentico. Da notare, anche in questo caso, che la Sacra Congregazione si occupa solo di questioni rilevanti per la dottrina della fede e non agisce come un generico tribunale penale, quindi non persegue chi ha falsificato il documento. Ma tiene conto che ciò è avvenuto.

Il 20 marzo anche Tommaso Caccini, l’estremista del complotto che aveva definito “arte diabolica” la matematica, giunge a Roma e si reca presso la Congregazione a denunciare Galileo.

In quegli stessi giorni a Napoli il Carmelitano Paolo Antonio Foscarini pubblica uno scritto che attrae l’attenzione delle gerarchie ecclesiastiche e del Cardinale Bellarmino perché dichiara di accordare i passi biblici con la teoria copernicana interpretandoli “in modo tale che non gli contradicano affatto”[36]: Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della Terra e stabilità del Sole, dedicata a Galileo, a Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei.

Il Cardinale Roberto Bellarmino decide di scrivere proprio a Paolo Antonio Foscarini per comunicare quanto la Congregazione sta decidendo in materia di teorie cosmologiche e circa il caso particolare di Galileo Galilei. Il tono non è quello minaccioso di un accusatore intransigente, ma quello pacato e pragmatico di un politico accorto che, oltre a tutelare il prestigio della religione, si preoccupa di non compromettere i difficili equilibri tra scuole teologiche e filosofiche connesse con poteri temporali.

A proposito di Galileo, che lui indica come il “mathematico”, dice che è sufficiente che proponga le sue ipotesi come costruzioni di fantasia e non quali verità, astenendosi dal dichiarare come “realmente” si muovono il Sole e la Terra nel sistema copernicano. A proposito del modello del canonico agostiniano precisa che la sua difesa ad oltranza come verità assoluta debba essere evitata, perché “cosa pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.

Foscarini informa di tutto Galileo, che scrive a Monsignor Piero Dini la frase drammatica passata alla storia: “Mi vien serrata la bocca”. Scrive poi anche a Cristina di Lorena una lunga e appassionata apologia delle sue idee e della loro compatibilità con tutte le verità della fede cristiana, sperando nell’intervento di questi autorevoli destinatari presso i membri della Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione[37]. Ma ciò non accade e, nell’arco di tempo che va dal mese di febbraio a quello di marzo, si conclude sia l’inchiesta sia lo studio dei teologi, con la redazione dell’atto di censura sulle teorie che asserivano l’esistenza di un moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole.

La delibera attiva conseguentemente i membri della Congregazione addetti all’Indice che dispongono l’immediato ritiro dell’opera principale di Copernico e di quella di Foscarini da tutte le biblioteche, in attesa di essere rivedute e corrette.

Credo sia interessante rilevare un aspetto particolare della posizione dei membri dell’Inquisizione: la censura dell’eliocentrismo si accompagna ad una scelta di campo, fortemente sottolineata e raccomandata, per le idee di Tycho Brahe, quello straordinario astronomo nato in Svezia, allora appartenente al Regno di Danimarca, e che ho ricordato in precedenza per aver ideato una soluzione di compromesso a proposito della supernova del 1572, dichiarandola intermedia tra il cielo immutabile delle stelle fisse e il cielo atmosferico mutevole, costituita da materia imperfetta e perciò soggetta a cambiamenti.

Con le sue osservazioni sulle comete, del 1577 e del 1585, Tycho Brahe confuta la teoria di Aristotele sull’immutabilità delle sfere celesti: per i suoi calcoli, le comete non potevano appartenere alla sfera sublunare e dovevano necessariamente muoversi nelle regioni eteree, dimostrando che gli astri non sono infissi in sfere solide come riteneva il filosofo di Stagira[38]. Tycho Brahe tuttavia, e nonostante il tentativo del suo allievo Keplero di persuaderlo del contrario, non abbandona il sistema geocentrico, anche se lo reinterpreta. Infatti, nel suo modello tutti i pianeti girano intorno al Sole, che a sua volta gira intorno alla Terra, immobile al centro dell’universo.

L’indicazione da parte dei membri dell’Inquisizione di seguire Tycho Brahe rivela un aspetto significativo del loro atteggiamento mentale: la disposizione di fondo di costoro non è spirituale ma politica, in quanto non si preoccupano principalmente di verificare la compatibilità delle nuove teorie con la Parola di Dio, ma di scegliere un campo di mediazione ideologica che consenta di non turbare gli equilibri fra quelle che Gesù Cristo chiamava “dottrine che sono precetti di uomini”[39].

Il Papa, intanto, aveva ordinato al Cardinale Roberto Bellarmino di convocare Galileo per ingiungergli di abbandonare la concezione eliocentrica e, se questi si fosse rifiutato di obbedire, il santo padre dice a Bellarmino che avrebbe dovuto davanti a un notaio e a dei testimoni “fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla”[40].

Bellarmino nella sua indagine ha scoperto falsità, calunnie e accuse fatte circolare ad arte su Galileo. In particolare, temendo che il paladino del sistema copernicano per la sua irriducibile opposizione al sistema tolemaico potesse apparire un eroe agli occhi di molti, la Lega dei colombi ha diffuso il racconto falso di una sua abiura e di punizioni ricevute dall’Inquisizione per le sue idee. Bellarmino intende ristabilire la verità e arginare la marea montante di discredito che rischia di travolgere nell’opinione pubblica toscana la reputazione fino allora ottima del matematico, fisico e astronomo pisano, e a questo scopo redige un documento in forma di lettera, che mi sembra utile riprodurre qui di seguito per consentire al lettore di averne conoscenza diretta:

 

Roma, 26 Maggio 1616

Noi Roberto Cardinale Bellarmino, havendo inteso che il Sig. Galileo Galilei sia calunniato o imputato di havere abiurato in mano nostra, et anco di essere stato per ciò penitenziato di penitentie salutari, et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto Sig. Galileo non ha abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, né manco ha ricevuto penitentie salutari né d’altra sorte, ma solo gl’è stata denuntiata la dichiarazione fatta da N. Sig. et pubblicata dalla Sacra Congregazione dell’Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico sia contraria alle Sacre Scritture, et però non si possa difendere né tenere. Et in fede di ciò habbiamo scritta e sottoscritta la presente di nostra propria mano, questo dì 26 Maggio 1616[41].

 

Lo scritto, autografato con tutti i crismi dell’ufficialità, è concepito come una sorta di “salvacondotto” che Galileo può esibire a qualunque tribunale locale e in qualsiasi circostanza creata ad arte da quei nemici impegnati in una battaglia personale contro lui, quali Ludovico delle Colombe, Tommaso Caccini e Niccolò Lorini.

 

 

 [continua]

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-02 ottobre 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 



[1] Tycho Brahe era nato Knutstorp nella Scania o Skåne, contea della Svezia allora appartenente al Regno di Danimarca.

[2] Copernico non cercava notorietà personale e non ambiva alla pubblicazione dei suoi studi. In una lettera a Keplero del 1597, Galileo chiama Copernico “nostro maestro” e fa riferimento al fatto che era oggetto di “derisione nella moltitudine degli stolti” (cfr. E. Bellone, op. cit. p. 9).

[3] Cfr. Enrico Bellone, op. cit., p. 9.

[4] Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova, cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 11.

 

[5] Cfr. Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery of the Brain and How It Changed the World, p. 27, Free Press (Simon & Schuster), New York 2004.

[6] Sono documentati i rapporti di cordiale consuetudine, se non di vera e propria amicizia, di Galileo con il rigorosissimo filosofo aristotelico Cesare Cremonini, docente di filosofia naturale.

[7] Questo è il titolo originale della sua opera tradotto dal greco; Il titolo Almagesto (Il grandissimo) è quello della versione araba che si era diffusa in Europa ed era stata tradotta in latino da Gherardo da Cremona, famoso per aver introdotto la denominazione “algebra” per indicare la nuova branca della matematica, traducendo il Kitab al-jabr di al-Khwārizmī, in cui compare il termine arabo che letteralmente voleva dire “completamento” (v. Enciclopedia della Matematica Treccani, 2013).

[8] Pubblicato solo nel 1543, l’anno della morte di Copernico, e per alcuni anni noto solo alla ristretta cerchia degli astronomi.

[9] Da sottolineare che in seno alla Chiesa molti erano entusiasti delle sue teorie. Il cardinale Nikolaus von Schönberg nel novembre del 1536 invia a Copernico una lettera encomiastica in cui lo invita a spedirgli tutto il materiale delle sue osservazioni, offrendosi di occuparsi personalmente della pubblicazione per un’ampia diffusione fra gli studiosi.

[10] In Italia imparò il greco. Si ritiene che a Ferrara, dove si laureò in Diritto Canonico, abbia letto gli scritti di Platone e Cicerone sulle opinioni degli antichi circa il movimento della Terra. Copernico aveva trovato la teoria eliocentrica in Aristarco di Samo (III sec. a.C.) il quale aveva tratto da Eraclide Pontico l’idea che la Terra, oltre ad orbitare intorno al Sole, ruotasse su sé stessa dando luogo alle stagioni.

[11] Nel corso degli anni ho avuto modo di riconoscere negli scienziati dei nostri giorni una marcata tendenza psicologica (bias) a riconoscere grande valore alla cornice teorica e culturale entro cui si sviluppano le ricerche. È facile comprenderne l’origine: se si perde il quadro di valore e di legittimazione degli studi, i ricercatori di fatto non hanno più scoperto nulla, il loro lavoro è vanificato e si priva di senso una parte della loro vita professionale.

[12] Galileo, Lettera a Paolo Sarpi del 16 ottobre 1604, cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 26.

[13] Enrico Bellone, op. cit., p. 29; si veda in particolare: Dalla certezza all’approssimazione, pp. 25-33.

[14] L’illustrazione di questa concezione e l’esemplificazione del tipo di procedimenti mentali caratteristici richiederebbe troppo spazio, per cui rimando alle mie lezioni e ai vari scritti che ho dedicato all’argomento, oltre che naturalmente al saggio originale: Edward De Bono, Il pensiero lateralecome produrre idee sempre nuove, BUR Rizzoli, Milano 1969-2020. La XIX edizione del 2020 è stata l’ultima, perché De Bono è deceduto il 9 giugno 2021.

[15] Poi battezzati satelliti medicei o galileiani. L’identificazione si fa risalire al 7 gennaio. Galileo deduce che orbitano intorno a Giove, e considera quest’evidenza un argomento a favore della teoria eliocentrica, perché era una dimostrazione che non tutti i corpi celesti ruotano intorno alla terra come voleva il sistema tolemaico.

[16] Cfr. Galileo Galilei, Contro il portar la toga, Edizioni ETS, Pisa 2005.

[17] Il suggerimento di questi modi non convenzionali fa pensare all’uso del “pensiero laterale” da me ipotizzato in precedenza.

[18] Il “drento” è per far rima con “vento”. Quaranta anni dopo, l’ex-allievo Renieri informa Galileo che Fantoni a Pisa ha ripristinato l’obbligo di toga per i medici e chiede il testo di Contro il portar la toga; Galileo lo invia e Renieri risponde che lui e gli amici hanno “riso un pezzo”.

[19] Vi erano anche i Cardinali Francesco Maria Del Monte e Maffeo Barberini, futuro pontefice, oltre a Federico Cesi.

[20] Ludovico Geymonat, Galileo Galilei, p. 63, Einaudi, Torino 1957.

[21] Cioè con i sensi, con l’osservazione diretta [la nota di precisazione è dello stesso Galileo].

[22] Francesco Iovine, Galilei e la Nuova Scienza, La Nuova Italia Editrice, p. 2, Firenze 1987.

[23] Cfr. Ludovico Geymonat, op. cit., idem.

[24] Enrico Bellone, op. cit., p. 67.

[25] Enrico Bellone, op. cit., p. 68.

[26] Il papato di Urbano VII è il più breve della storia: morì di malaria il 27 settembre 1590, dodici giorni dopo l’elezione.

[27] Dopo gli inizi del carteggio era più spesso Paolo Gualdo a scrivere a Galileo. Negli epistolari troviamo quattro lettere di Galileo all’arciprete e dodici lettere di questi all’astronomo, oltre a un rimprovero di Gualdo perché Galileo a volte mancava di rispondere.

[28] Secondo Enrico Bellone questo parere ebbe l’effetto di indurre Galileo a sottovalutare l’estendersi e l’inasprirsi del movimento di opinione contro le sue tesi.

[29] Maffeo Barberini intorno al 1598 fu ritratto da Caravaggio (collezione privata, Firenze) che poi, secondo Lionello Venturi (1912), Gianni Papi e Keith Christiansen (2010) eseguì un secondo ritratto ora esposto a Palazzo Corsini (al Parione) in Firenze. Giulio Mancini, medico di Barberini quando divenne Papa, scrive che Caravaggio ritrasse più volte Maffeo prima che divenisse cardinale.

[30] Enrico Bellone, op. cit., p. 69.

[31] È la prima delle quattro lettere copernicane di Galileo, divisa in due parti: la prima sul rapporto tra scienza e fede, e la seconda dedicata al passo biblico in cui Giosuè comanda al sole di fermarsi.  Il carattere privato delle lettere aggirava una disposizione del Concilio di Trento, che prescriveva l’autorizzazione della Chiesa per la circolazione pubblica di qualsiasi scritto di interesse religioso.

[32] Cit. in Enrico Bellone, op. cit., p. 70.

[33] Convenzionalmente è inclusa tra le quattro “lettere copernicane” scritte da Galileo tra il 1612 e il 1615 a Benedetto Castelli, Pietro Dini e Cristina di Lorena, nelle quali dimostra la compatibilità delle sue idee con le Sacre Scritture.

[34] È la più antica delle Congregazioni della Curia romana; riformata da Papa Sisto V che istituì altre 14 congregazioni con la Costituzione Immensa Aeterni Dei del 22 gennaio 1588.

[35] Denuncia che sarà poi adottata per avviare il primo processo a Galileo.

[36] Paolo Antonio Foscarini, Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici, e del Copernico, della mobilità della Terra e stabilità del Sole, e del nuovo Pittagorico sistema del mondo, p. 7, Lazaro Scoriggio, Napoli 1615.

[37] Col precipitare degli eventi Galileo si reca a Roma, come sappiamo da una lettera del Granduca Cosimo al Cardinale Scipione Borghese: “…et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da’ suoi emuli” (Cfr. Guido Morpurgo Tagliabue, I processi di Galileo e l’epistemologia. Rivista di Storia della Filosofia. Vol. II, 1947).

[38] L’Inquisizione adotterà e raccomanderà il modello di Tycho Brahe, ad ulteriore conferma di quanto sia erroneo proporre, come fanno Carl Zimmer e altri autori, una Chiesa aristotelica che perseguita Galileo antiaristotelico (cfr. §32).

[39] “Invano essi mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15, 9): Gesù cita Isaia.

[40] Cfr. Guido Morpurgo Tagliabue, op. cit.

[41] Questo documento, come altre citazioni tra virgolette non altrimenti specificate, sono tratte dalla seguente raccolta di documenti: Roberto Vergara Caffarelli, Il laboratorio di Galileo Galilei, Multimedia, 30 nov. 2011. Bellarmino donò tutti i suoi averi ai poveri, così che visse e morì in povertà; fu poi canonizzato da Pio XI il 29 giugno 1930.